Lavoro, tre italiani su quattro hanno avuto almeno un sintomo del burnout. L’esperta: “Il disagio non riguarda solo gli impiegati in ufficio

Uno su due soffre d’ansia, insonnia e stress. La giornalista Jessica Masucci nel suo libro: “Ancora forte lo stigma, serve più prevenzione, soprattutto tra i disoccupati”

Sensazione di sfinimento, calo dell’efficienza, aumento del distacco mentale, cinismo rispetto al lavoro: il 76% delle lavoratrici e dei lavoratori italiani ha sperimentato almeno uno di questi sintomi del burnout, con un aumento del 14% rispetto allo scorso anno. Sono i numeri che emergono dalla ricerca del 2023 di Bva Doxa presentata da Mindwork, in occasione della Giornata Mondiale della salute mentale.

Risultati poco rincuoranti: una persona su due in Italia dichiara di soffrire di ansia e insonnia per motivi legati al lavoro e lo stesso numero sperimenta condizioni di stress elevato. Ma non siamo i soli. L’anno scorso nell’Unione europea il 27% delle lavoratrici e dei lavoratori ha sofferto di stress, depressione e ansia. “La salute mentale e il lavoro sono strettamente interconnessi. In particolare, il lavoro precario, compreso il lavoro mal retribuito e non protetto, può portare a disturbi”, si legge nel comunicato delle conclusioni con cui il Consiglio dell’Ue invita gli Stati membri a rafforzare la salvaguardia del benessere psicologico sul lavoro.

Tra i professionisti che in Italia si interessano all’analisi sul campo di questo binomio c’è Jessica Mariana Masucci, giornalista freelance, autrice del libro “Il fronte psichico. Inchiesta sulla salute mentale degli italiani” (Nottetempo, 2023) e della newsletter “Stati di salute”. Da diversi anni Masucci si occupa di tenere traccia di come viene affrontato il tema della salute mentale nel nostro Paese, e lo ha fatto anche collegandolo al mondo occupazionale.

Quando pensiamo al fenomeno del burnout, ci figuriamo questo impiegato d’ufficio crollato sulla sua scrivania davanti al pc. Poche volte prendiamo in considerazione lo stato mentale di molti altri lavoratori: chi svolge attività fisiche per cui rischia tutti i giorni, ancora oggi, la propria vita, o chi è quotidianamente a contatto con situazioni delicate e pericolose come il personale sanitario, i poliziotti, le guardie carcerarie”, ha raccontato Masucci. “E allo stesso tempo sono gli stessi che si sentono meno tutelati”. Sempre secondo l’analisi di Bva Doxa infatti, tra i colletti blu, ovvero coloro che sono impiegati in attività manuali, c’è più difficoltà ad assentarsi dal lavoro per prendersi cura di sé: solo il 19% ha effettuato più di 5 giorni di pausa, mentre la percentuale sale al 55% per i colletti bianchi – gli impiegati d’ufficio – e al 62% per i dirigenti.

IMPIEGATI IN ATTIVITA' MANUALI SONO IL
19%
IMPIEGATI NEGLI UFFICI SONO IL
55%
PERSONALE DIRIGENTE
62%

Quanto incide il lavoro sul nostro stato psicologico?

“Moltissimo e non solo perché il lavoro che facciamo è parte del nostro inserimento e della nostra posizione all’interno della società, ma anche da un punto di vista pratico: il nostro luogo di lavoro è dove spendiamo circa otto ore delle nostre giornate.

Si sta facendo qualcosa per favorire la salute mentale nei luoghi di lavoro? 

“Dopo la pandemia il discorso pubblico sulla salute mentale ha subito una netta accelerazione. Già da prima se ne parlava sui social, con la diffusione di sempre più profili gestiti da psicologici o psicoterapeuti, ma dopo l’avvento del Coronavirus questo tema ha iniziato a toccare anche temi politici e a diffondersi anche al di fuori delle pagine specialistiche di giornali e riviste. Si tratta dunque di un cambiamento recente, che è penetrato anche nel mondo professionale, ma in maniera non uniforme. Ci sono aziende e società in cui ora vengono offerti benefit, seminari, corsi di psico-educazione, coach ma queste rappresentano la punta di diamante di una piramide, dove alla base si trovano ancora oggi – e lo vediamo dalle continue cronache delle morti sul lavoro – professioni come quelle degli operai edili, in cui la mancanza di sicurezza pratica si ripercuote su quella mentale. Se ogni giorno vado al lavoro e penso di potermi ferire, cadere, morire questo certamente avrà un’enorme impatto sulla mia stabilità psicologica”.

Si tratta di provvedimenti efficaci?

“Credo sia ancora troppo presto per poterlo dire ma valutarne l’efficacia sarà fondamentale. Il punto, però, è che la massima importanza andrebbe conferita alla prevenzione, per cui il vero cambiamento da ricercare non è tanto organizzativo quanto culturale. Va eliminato lo stigma intorno ai disagi mentali, che è ancora così forte che diversi lavoratori che ho intervistato mi hanno chiesto di pubblicare le loro storie tramite pseudonimi. E va scoraggiato qualunque tipo di gestione del lavoro che fomenti atteggiamenti sessisti, razzisti, vessatori. Lo schema va rivisto: ci dovremmo concentrare sulla conservazione della salute mentale e solo dopo, semmai, a trovare soluzioni per quando è già compromessa.

Oggi sono sempre più frequenti fenomeni come le “grandi dimissioni” per cui lavoratrici e lavoratori antepongono il proprio benessere alla stabilità economica di un posto fisso. Trovi che ci sia più consapevolezza nel riconoscere i disagi negli ambienti di lavoro?

“Dal 2020 si è iniziato a parlarne molto di più sui social o davanti alle macchinette del caffè coi propri colleghi. Questo è certamente positivo, perché, per esempio, il burnout di un singolo molto spesso è sintomo di un ambiente lavorativo con conseguenze malsane per molte persone. D’altra parte, però, questi temi richiedono di parlarne nel modo più informato e corretto possibile e il proliferare di etichette diagnostiche non professionali non fa bene a nessuno”.

FONTE LA REPUBBLICA.IT

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